Il quarantunenne Giuseppe Capotondi debutta e convince a Venezia 66: La doppia ora è di gran lunga il miglior film italiano visto quest’anno in concorso: un racconto complesso che lavora su diversi piani e affonda nella solitudine e nelle tribolazioni dei suoi protagonisti. Capotondi riesce a costruire con grande abilità un thriller psicologico profumato di melodramma che capovolge di continuo la prospettiva: il dubbio si impossessa rapidamente dello spettatore, che è costretto a sospendere il giudizio sui protagonisti a causa di un ribaltamento non stop delle loro posizioni, in particolare quella della dark lady Kseniya Rappoport, personaggio fortemente ambiguo intriso di malinconia. Ci si lascia così trascinare dagli eventi che fremono dei toni tipici del noir per delineare una storia d’amore che vive di accenni e respiri trattenuti. L’opera di Capotondi tende a confondere, a partire dalla commistione di generi che opera, in un avvincente gioco di specchi con il disordine che alberga dentro i protagonisti L’azione si muove principalmente tra non-luoghi (l’albergo, l’ospedale, la stanza di vigilanza della villa) così come l’incontro alla base della storia si configura come un non-incontro: Sonia e Guido (interpretato da un Filippo Timi che è sempre un piacere ritrovare sullo schermo) vedono i loro destini intrecciarsi durante uno speed date. L’inizio della vicenda è poi da ritrovare in una morte, perché da quel momento in poi si mette in moto un meccanismo ad orologeria che produrrà una serie di credibili colpi di scena fino all’immagine rivelatoria finale. Perché ne La doppia ora nulla è come sembra e il regista e i tre sceneggiatori ce lo dimostrano continuamente. La bellezza del film è tutta nel suo ruotare attorno alla fatica di scontare i propri sensi di colpa e di risorgere dalla solitudine. La sceneggiatura volge sempre in quella direzione, giustificando così quelle che potrebbero apparire come incertezze. La realizzazione è poi corretta, mai eccessiva anche nelle parentesi più critiche, e delicata quando i sentimenti tendono ad esplodere. Sonia viene da Lubiana e fa la cameriera in un hotel. Guido è un ex poliziotto e lavora come custode in una villa fuori città. Si incontrano per caso in uno speed date. Lui è un cliente fisso. Per lei è la prima volta, e si vede. Poche parole, un’istintiva attrazione. In pochi giorni imparano a conoscersi, ad aprirsi, a svelare le proprie ferite. Sono sul punto di innamorarsi… quando Guido muore. Improvvisamente, durante una rapina nella villa che dovrebbe custodire. Sonia si ritrova da sola a elaborare un lutto di cui non riesce a trovare il senso. E di cui alcuni addirittura la ritengono responsabile. Mentre il passato di Sonia ritorna, con tutti i suoi nodi non risolti, la realtà che la circonda comincia a collassare, fino a crollarle addosso. Tutto inizia a cambiare, ogni certezza si sgretola e nessuno è più lo stesso. Nemmeno Sonia. Chi è veramente? E soprattutto, è davvero Guido quello che lei continua a vedere, al di là di ogni plausibile logica, o è solo la sua mente che vacilla? E cosa farà quando le verrà offerta una seconda occasione? Le risposte arrivano solo alla fine, in un continuo capovolgimento di eventi. Seguiranno elaborazione del lutto, dei sensi di colpa, strane visioni, inquietanti presenze, e la manifestazione sovrannaturale dell’amato Guido che porterà a dei risvolti e a delle conseguenze davvero inaspettati. Il regista Giuseppe Capotondi sforna un bel thriller sovrannaturale sorprendendo un pò tutti, visto che il genere in Italia oltre ad essere poco visitato, caratterizzando molto bene i due protagonisti, il loro percorso durante il film intriga chi guarda e accompagna lo spettatore in furbi ed efficaci escamotage intrisi di tensione e suggestive sequenze oniriche, attraverso un rompicapo narrativo complesso e veramente ben congegnato.